L’IPOCRISIA DEL GIUDIZIO: LA TURCHIA, GAZA E IL FANTASMA SILENZIATO DEL GENOCIDIO ARMENO

 

Genocidio armeno - bambini

La scena geopolitica contemporanea è un mosaico di alleanze mutevoli e di giudizi morali che spesso si rivelano essere strumenti di interesse politico. In questo contesto la Turchia si è eretta a voce autorevole nella condanna delle operazioni militari israeliane nella Striscia di Gaza, non limitandosi alla critica, ma spingendosi fino a etichettare le azioni come "genocidio" o crimini contro l'umanità. Se da un lato questa ferma presa di posizione appare allineata alla difesa dei diritti umani e della causa palestinese, dall'altro lato essa si scontra violentemente con una profonda e irrisolta contraddizione storica che mina la stessa autorità morale di Ankara: la negazione sistematica e decennale del Genocidio Armeno.

​L’ipocrisia non si annida nella denuncia in sé ma nella selettività con cui viene applicato il principio di giustizia. Come può una nazione invocare i più alti standard legali e morali per giudicare l’intento distruttivo di un altro Stato - requisito fondamentale della Convenzione sul Genocidio - quando essa stessa rifiuta categoricamente di riconoscere come genocidio l’eliminazione sistematica di circa un milione e mezzo di Armeni perpetrata dall'Impero Ottomano tra il 1915 e il 1923?

​Il rifiuto della Turchia non si limita a una semplice disputa storiografica, esso è un atto politico di Stato che persiste attraverso i decenni. La narrazione ufficiale turca ammette che nel caos della Prima Guerra Mondiale vi furono vittime e massacri su entrambi i lati del conflitto e che la deportazione degli Armeni fu una misura di sicurezza in tempo di guerra, aggravata da carestie e malattie. Tuttavia, essa rigetta con veemenza l’accusa di premeditazione e intento specifico di distruggere il gruppo etnico armeno, elementi essenziali per la definizione legale di genocidio. Mantenendo questa negazione, la Turchia evita l'onere morale, ma soprattutto le potenziali implicazioni legali e finanziarie, come richieste di risarcimento e restituzione di proprietà, che deriverebbero da un pieno riconoscimento.

​La coerenza morale imporrebbe che un Paese, nel momento in cui condanna un atto come genocidio, abbia la schiena dritta e la storia pulita ma nel caso della Turchia, l’accusa contro Israele è, in primo luogo, uno strumento di politica estera. Essa rafforza la leadership del Paese nel mondo musulmano, funge da potente leva diplomatica e distoglie l'attenzione dalle proprie frizioni interne e dalle tensioni con l'Occidente. Applicare il termine "genocidio" contro un avversario è una mossa potente e carica di significato ma la sua eco suona vuota quando proviene da una nazione che ha speso innumerevoli risorse per silenziare e sanzionare chiunque, all'interno o all'esterno dei suoi confini, osi utilizzare quel medesimo termine per descrivere le atrocità del 1915.

​Questa ambiguità di giudizio crea una vera e propria doppia misura etica. Da un lato, la Turchia pretende un’applicazione rigida e severa della legge internazionale per giudicare le operazioni militari di un altro Paese, dall'altro lato esige un’amnistia storica per i propri antenati. Finché il governo di Ankara non farà i conti con la propria storia e non riconoscerà la verità storica del Genocidio Armeno, ogni sua successiva condanna di atrocità internazionali sarà percepita non come una sincera invocazione alla giustizia universale ma come un calcolo cinico e tattico.

​La giustizia, per essere credibile deve essere indivisibile e il mondo non può accettare che un crimine contro l'umanità sia definito come tale solo quando conviene a una determinata agenda politica. L'ombra lunga del 1915 continuerà a gettare il suo peso sull'attuale retorica turca, svuotando le sue accuse più veementi e trasformando la sua posizione di difensore dei diritti in un lampante esempio di ipocrisia istituzionale.

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